Il Manifesto: La cinematografia italiana riscopre il film politico d’autore

Quella che esploriamo in Strada della Morte è la ‘casa dimenticata’ della sinistra: si trova lì, ad un passo dal mondo artificioso di facciata del b&b (la sinistra parlamentare ormai aqquartierata nei suoi comodi palazzi?); una casa abbandonata dietro una quinta che nessuno mai apre.
Se ci si entra, però, le porte che si trovano sono tutte aperte e spalancano mondi sepolti, che attendono una rielaborazione di significato.
Pensiamo ai vecchi strumenti di lavoro abbandonati, al servizio di piatti pulito e intonso dentro un involucro logoro e rozzo ma anche ai prodotti della terra, vino, asparagi, in altre parole l’economia reale: asparagi che Gandini non sa più capire e vede come ‘dita umane’. Una critica quella di Strada della Morte che si esplicita fin dalle prime battute: Gandini semiscalzo, in ciabatte rosse, che pure invita a non andare a sinistra.
Il corto circuito di significato funziona eccome (l’autolesionismo e il frazionamento delle sinistre, l’assenza di un senso di orientamento).
E mentre i personaggi lentamente incedono nella casa, stanza per stanza, locale per locale, fuori dalle finestre si erigono muri…
Non vorremmo esagerare, però in certa misura è auspicabile che la sinistra italiana debba ripartire riflettendo su film come questo.

Libero Quotidiano: Strada della Morte, il bazar del nulla

Cominciamo subito col dire che Strada della Morte non ci è piaciuto.
Non perché l’impalcato narrativo sia perlomeno sconclusionato (e lo è), non perché l’introspezione psicologica sia pressoché assente (e lo è), non perché i simbolismi siano oltremodo laconici (e lo sono), bensì perché gli autori dimostrano di compiacersi stucchevolmente proprio dei suddetti limiti, ostentandoli ad ogni passo del dipanarsi di questa non-storia e dunque imboccando una strada di scoperta autoreferenzialità (in questo senso, davvero ‘della morte’, ma del cinema stesso) che speravamo ormai relegata a certi intellettualismi del passato e che invece, a quanto pare, continua a mietere epigoni.
Ma veniamo alla trama: due uomini, di cui fino alla fine non sapremo mai nulla, si aggirano oziosamente in ambiente domestico; capiamo che la casa è di altri, i nostri non conoscono l’ubicazione degli asciugamani; ed è proprio nell’affanosa ricerca di tali ambiti asciugamani che viene scoperto un passaggio segreto (sic!) dietro il pannello di un attaccapanni (sic!); da ora in poi, comincia un’esplorazione estenuante (che si vorrebbe avventurosa, ma annoia) di una sequenza di spazi abbandonati (che si vorrebbero misteriosi, ma non inquietano), stanze nelle stanze, scale e sottotetti, porte che si dischiudono incessantemente, cumuli di oggetti ammucchiati/esposti alla rinfusa, una casa dietro/dentro la casa. Il film sembra concentrarsi nel delineare un luogo ‘altro e parallelo’, una dimensione di possibilità inespresse celata ‘oltre’ una quotidianità (l’ambiente domestico dell’inizio) insoddisfacente, improduttiva, lascivamente indolente (e un legame omosessuale tra i due uomini, in questo senso, è forse più di un sospetto): ma ogni tensione narrativa finisce per debilitarsi nell’asettico interminabile elenco degli oggetti (merci, viveri, utensili, manufatti) che i nostri protagonisti incontrano sul loro cammino e che osservano senza stupore, con occhio stanco e impassibile, limitandosi vicendevolmente a ‘nominarli’ (in continuazione) senza tentare neppure di ‘ri-significarli’, come se tutto fosse già scontato e delimitato (ma allora perché pretendere uno sconfinamento nell’ignoto?), via via fino al colpo di scena finale (che non riveleremo), da cui peraltro lo spettatore, superato l’attimo di sorpresa, non potrà desumere alcun riscatto morale ma soltanto la conferma dell’inerte messinscena di questo ‘bazar del nulla’.

Cahiers du Cinema: Seguendo Lars Von Trier Strada della Morte conduce a Bunuel

Di primo acchito Strada della Morte accompagna lo spettatore a una visione di facile lettura: il girato in piano sequenza a spalla, traballante, quel lieve ansimare che ascoltiamo nell’inoltrarsi dei personaggi alla scoperta dell’ignoto, in assenza di una qualsiasi colonna sonora. Un Dogma, appunto, di straordinario rigore.
Ma a una più attenta visione, o meglio dire a una “rivisitazione”, il film non è poi così leggibile come vorrebbe far credere.
Più Lenzarini/Virgilio e Gandini/Dante si incamminano alla scoperta di questa casa misteriosa, abbandonata ma pur viva, più si confondono le carte.
Ecco che l’operatore indugia sui particolari. La bottiglia di Aperol che splende sul comodino viene richiamata esplicitamente: è ripresa in primo piano (a differenza dei vini, anche pregiati, abbandonati a terra). Così come lo sono il cappello, o il servizio da pesce.
Potremmo dire che lo spettatore, fatto entrare con Trier, viene a un certo punto preso per mano da Ėjzenštejn: quei particolari così significanti nella trama del racconto che il maestro russo estremizzava attraverso il montaggio, qui sono invece dissimulati dal piano sequenza. Ma sono li, a ricordarci che nulla è come sembra.
Ma non è per questo omaggio, che è pur sempre un espediente retorico, che ricorderemo Strada della Morte come un piccolo gioiello – una “gioia per gli occhi” – bensì per la vera e propria trasgressione finale: un ribaltamento totale che improvvisamente, all’ultima stanza, ci proietta bruscamente in un contesto “altro”.
Gli autori vanno spregiudicatamente a scomodare, per chiudere, un grandissimo cineasta: Luis Bunuel.
Ecco dunque il tranquillo soffermarsi attorno alla morte dei nostri personaggi, come fosse cosa scontata, quasi attesa, in un commiato che però non prevede soste: la scena richiama esplicitamente “l’Angelo sterminatore”, ribaltandola completamente.
Così come i personaggi del regista spagnolo erano incapaci di lasciare la loro camera, viceversa in Strada della Morte sono condannati a un incedere senza meta, di stanza in stanza, in una casa immaginaria il cui perimetro pare non aver fine.