Libero Quotidiano: Strada della Morte, il bazar del nulla

Cominciamo subito col dire che Strada della Morte non ci è piaciuto.
Non perché l’impalcato narrativo sia perlomeno sconclusionato (e lo è), non perché l’introspezione psicologica sia pressoché assente (e lo è), non perché i simbolismi siano oltremodo laconici (e lo sono), bensì perché gli autori dimostrano di compiacersi stucchevolmente proprio dei suddetti limiti, ostentandoli ad ogni passo del dipanarsi di questa non-storia e dunque imboccando una strada di scoperta autoreferenzialità (in questo senso, davvero ‘della morte’, ma del cinema stesso) che speravamo ormai relegata a certi intellettualismi del passato e che invece, a quanto pare, continua a mietere epigoni.
Ma veniamo alla trama: due uomini, di cui fino alla fine non sapremo mai nulla, si aggirano oziosamente in ambiente domestico; capiamo che la casa è di altri, i nostri non conoscono l’ubicazione degli asciugamani; ed è proprio nell’affanosa ricerca di tali ambiti asciugamani che viene scoperto un passaggio segreto (sic!) dietro il pannello di un attaccapanni (sic!); da ora in poi, comincia un’esplorazione estenuante (che si vorrebbe avventurosa, ma annoia) di una sequenza di spazi abbandonati (che si vorrebbero misteriosi, ma non inquietano), stanze nelle stanze, scale e sottotetti, porte che si dischiudono incessantemente, cumuli di oggetti ammucchiati/esposti alla rinfusa, una casa dietro/dentro la casa. Il film sembra concentrarsi nel delineare un luogo ‘altro e parallelo’, una dimensione di possibilità inespresse celata ‘oltre’ una quotidianità (l’ambiente domestico dell’inizio) insoddisfacente, improduttiva, lascivamente indolente (e un legame omosessuale tra i due uomini, in questo senso, è forse più di un sospetto): ma ogni tensione narrativa finisce per debilitarsi nell’asettico interminabile elenco degli oggetti (merci, viveri, utensili, manufatti) che i nostri protagonisti incontrano sul loro cammino e che osservano senza stupore, con occhio stanco e impassibile, limitandosi vicendevolmente a ‘nominarli’ (in continuazione) senza tentare neppure di ‘ri-significarli’, come se tutto fosse già scontato e delimitato (ma allora perché pretendere uno sconfinamento nell’ignoto?), via via fino al colpo di scena finale (che non riveleremo), da cui peraltro lo spettatore, superato l’attimo di sorpresa, non potrà desumere alcun riscatto morale ma soltanto la conferma dell’inerte messinscena di questo ‘bazar del nulla’.

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